Il misuratore del debito pubblico dell’Istituto Bruno Leoni alla stazione Termini di Roma, nel 2018 (Vincenzo Livieri – LaPresse)
Se ne parla spesso per mille motivi, ma a chi non ne sa nulla possono sembrare qualcosa di vacuo e indefinibile
L’Italia ha un debito pubblico tra i più alti al mondo, pari a 2.840 miliardi di euro e oltre il 140 per cento del Prodotto Interno Lordo. Una cifra simile può apparire astratta e difficile da immaginare, ma dietro questa mole di debito ci sono tanti creditori, che sono soggetti concreti: banche centrali, banche commerciali, fondi di investimento italiani ed esteri e anche persone comuni che hanno deciso di investire i propri risparmi. Ciascuno di questi creditori detiene una parte del debito pubblico attraverso i cosiddetti titoli di Stato, cioè strumenti finanziari con cui lo Stato prende in prestito denaro per finanziare la propria spesa pubblica, e sui quali paga interessi; allo stesso tempo, chi li presta fa un investimento che gli permette di ottenere dei profitti.
Se ne parla spesso per la loro centralità nel funzionamento di un Paese indebitato come l’Italia, ma anche perché il governo di Giorgia Meloni sta introducendo misure per incentivare le famiglie a investire i propri risparmi nel debito italiano, acquistando quindi titoli di Stato. E lo fa da un lato per coerenza con la tendenza nazionalista di questo governo, dall’altro perché è opinione generale che se il debito pubblico di un Paese è detenuto dai risparmiatori privati, e non dalle grandi banche o dai fondi di investimento, ciò è garanzia di maggiore stabilità.
Per fare un esempio recente, nel disegno di legge di bilancio è stata inserita una norma secondo la quale i titoli di Stato italiani fino a un valore complessivo di 50mila euro non dovrebbero più essere considerati nel calcolo dell’ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente), parametro che serve a regolamentare l’accesso a determinati servizi e a calcolare incentivi che sono rivolti solo alle persone e alle famiglie che hanno un valore inferiore ad una certa soglia. Viene utilizzato, ad esempio, per l’accesso ai servizi per l’infanzia, come l’asilo nido o assegno per figli a caricoo per richiedere benefici. Secondo alcuni esperti, decidere di escludere i titoli di Stato dal calcolo dell’Isee genera problemi di disuguaglianza e tenderà a favorire l’accesso ai servizi pubblici per le famiglie con reddito medio, a scapito di quelle più povere.
In sintesi
I titoli di Stato sono strumenti finanziari con cui gli Stati prendono in prestito denaro e che alimentano il debito pubblico. A differenza di qualsiasi titolo, come ad esempio un’obbligazione di una società quotata in borsa, sono emessi da enti pubblici: sono tipicamente considerati meno rischiosi dei titoli di società private, perché si presuppone che gli Stati abbiano meno probabilità di fallire, e che pertanto, chi ha acquistato un titolo di Stato difficilmente perderà l’intera somma investita. Possono acquistarli tutti: fondi, banche, grandi e piccoli risparmiatori.
Come ogni strumento finanziario, anche i titoli di Stato garantiscono un profitto a chi li acquista, espresso in termini di tasso di interesse. Rispondono quindi a una normale logica di investimento in Borsa: per semplificare, ottenere un profitto prestando denaro attraverso l’acquisto di obbligazioni e titoli di Stato (oppure entrando nel capitale di qualche azienda acquistando azioni). L’Italia poi vende i titoli costantemente e a un certo importo, promettendo di pagare gli interessi all’acquirente e di restituirli entro una certa data. La data di rimborso è la scadenza dei titoli, ai quali viene riconosciuto anche un regime fiscale favorevole: sul pagamento degli interessi lo Stato trattiene un’imposta del 12,5%, mentre sugli altri proventi finanziari l’aliquota è del 26%, poco più del doppio.
Non c’è un solo titolo
Nasce il Ministero dell’Economia varie tipologie di titoli di Stato per renderli appetibili sul mercato e adatti alle più diverse esigenze. Differiscono, tra l’altro, per la durata, per le modalità di pagamento degli interessi, per l’indicizzazione o meno all’inflazione.
Ad esempio, per chi vuole investire i propri soldi per un periodo di tempo molto limitato, ci sono i BOT, Buoni del Tesoro, che hanno scadenza massima di un anno: il rendimento è dato dalla differenza tra il prezzo di acquisto e il valore che lo Stato restituisce a fine periodo, cioè il valore nominale. Se compri un BOT da 97 euro e lo Stato ne restituisce 100 a fine periodo, il profitto sarà di 3 euro.
Ci sono poi i titoli di Stato che garantiscono un rendimento periodico, chiamato cedola, che viene pagato con cadenza regolare prima della scadenza. Sono i BTP, cioè i buoni del Tesoro pluriennali, che hanno una durata dai 3 ai 50 anni. Garantiscono pagamenti semestrali fissi in funzione del tasso di interesse al quale vengono inizialmente emessi. Semplificando e approssimando molto i calcoli per facilitarne la comprensione, un BTP con scadenza 10 anni, emesso con un tasso di interesse annuo del 4 per cento e del valore di 100 euro, garantirà per dieci anni una cedola semestrale di 2 euro. , oltre che il rimborso di 100 euro alla scadenza.
BOT e BTP sono i titoli di Stato più tradizionali. Sono due modelli base, da cui il Ministero dell’Economia ha ricavato nel tempo alcune varianti per rendere appetibili gli investimenti in titoli di Stato anche a seconda del periodo storico. Il meccanismo di base, però, è sempre lo stesso per tutti: i titoli si acquistano pagando soldi allo Stato, che poi verranno restituiti alla scadenza con gli interessi.
Ci sono ad esempio i titoli di Stato indicizzati all’inflazione, i BTP€i, simili ai BTP le cui cedole e rimborso finale sono però indicizzati all’inflazione europea, oppure il BTP Italia, che è invece indicizzato all’inflazione italiana: significa che se l’inflazione in Italia è al 4% in un anno, anche la cedola del titolo indicizzato aumenterà del 4%.
All’inizio della pandemia di coronavirus il Ministero dell’Economia ha creato il BTP Futuro, che mirava a raccogliere fondi per sostenere l’economia durante la crisi economica innescata dalla pandemia. Recentemente sono nati anche i BTP Valore, acquistabili solo dai piccoli risparmiatori. Prevedono una cedola periodica e un premio se il titolo viene mantenuto fino alla scadenza, circostanza che preoccupa maggiormente i risparmiatori privati, mentre gli investitori professionali tendono a non farlo.
Come e dove acquistarli
I titoli di stato possono essere acquistati in due modi. Il primo è sul cosiddetto mercato primario, solo al momento dell’emissione dei titoli: il Ministero dell’Economia li offre agli acquirenti tramite aste curate dalla Banca d’Italia e al quale dovrai registrarti indicando il valore dei titoli che intendi acquistare e a quale prezzo. A queste aste possono partecipare solo gli investitori autorizzati, come fondi di investimento e banche: se una persona vuole acquistare titoli di Stato sul mercato primario deve dare mandato alla propria banca, che farà un’offerta per suo conto, oppure può farlo tramite il loro piattaforma home banking se abilitato al trading. Gli acquisti devono essere di almeno 1.000 euro.
– Leggi anche: Come funziona un’asta BTP
La seconda modalità con cui si possono acquistare i titoli di Stato è sul mercato secondario, cioè in Borsa attraverso il MOT, il Mercato Telematico dei Titoli e dei Titoli di Stato, gestito da Borsa Italiana. Si tratta di un portale online a cui si può accedere sempre tramite un intermediario finanziario, la differenza è che sul mercato secondario si possono acquistare titoli già emessi e in circolazione, non solo ad una determinata ora ma ogni giorno di apertura della Borsa. Anche in questo caso l’importo minimo per l’offerta è di 1.000 euro.
È importante sapere che se acquisti titoli di Stato non sei obbligato a trattenerli fino alla scadenza, e questo vale per qualsiasi titolo negoziabile in Borsa: puoi venderlo in qualsiasi momento al prezzo di mercato e rientrare in possesso del capitale investito. liquidità (che però potrà essere superiore o inferiore alla somma di partenza, a seconda dell’andamento del mercato).
I rischi
I titoli di stato funzionano come qualsiasi strumento di investimento, ma sono in media considerati più sicuri di altri titoli, a meno che determinati paesi non siano a rischio di fallimento. Come nel caso dell’Argentina, che nel 2001 fallì e rifiutò di pagare oltre 100 miliardi di dollari di titoli di stato, i cosiddetti legame di tango.
Nel caso dei paesi avanzati, i rischi legati a questi investimenti sono legati principalmente alle oscillazioni dei prezzi nel tempo, che risultano però piuttosto contenute in tempi normali rispetto ad altri titoli. Il rischio che il capitale non venga rimborsato alla scadenza è considerato basso.
Come sempre gli investimenti più sicuri permettono anche di guadagnare meno, mentre gli investimenti che permettono di guadagnare di più grazie ad interessi più alti comportano un rischio maggiore di non vedere il ritorno del denaro investito. In altre parole, se sei uno Stato e vuoi convincere qualcuno a prestarti i suoi soldi, dovrai offrire un rendimento (cioè il profitto ottenuto con gli interessi) ritenuto conveniente dagli investitori: se secondo chi investe lì c’è il rischio che tu non restituisca quei soldi, quindi per convincerli dovrai offrire interessi più alti.
Sebbene il suo fallimento sia considerato uno scenario improbabile, l’Italia è considerata uno dei paesi europei più a rischio a causa dell’enormità del suo debito pubblico. Tra i paesi europei è quindi uno di quelli che offre gli interessi più alti sul proprio debito. Il famigerato “spread” definisce la differenza di rendimento tra i titoli di stato della Germania, che è il paese considerato più solido e affidabile e che funge da punto di paragone, e i titoli di stato di un altro paese, in questo caso l’Italia . Quanto più alto è lo spread, tanto più rischioso sarà percepito quel paese rispetto alla Germania, alla quale solitamente viene attribuito un rischio prossimo allo zero.
– Leggi anche: Dovremmo tornare a preoccuparci dello spread?
Chi ha questi titoli?
Pertanto, essendo in qualche modo più sicuri rispetto ad altri strumenti di investimento, i titoli di Stato sono considerati adatti alle persone comuni e alle famiglie che non investono a livello professionale, ma magari solo per far fruttare i propri risparmi. Nonostante ciò, da anni la quota dei risparmiatori privati sul totale detentore del debito pubblico è inferiore a quella di una ventina di anni fa, quando era attorno al 16 per cento: attualmente è solo al 9 per cento, ma è in crescita da tre anni. La quota maggiore appartiene alle banche centrali: la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia detengono circa il 35%.