Com’è possibile che Israele abbia bisogno della “guida” militare statunitense? – Corriere.it

È clamoroso, sconcertante che Israele riceva “consigli” dagli Stati Uniti su come condurre le operazioni anti-Hamas a Gaza. Chi meglio dell’esercito israeliano conosce la situazione sul campo? Cos’altro possono sapere i soldati inviati da Washington per “assistere”?

L’invio del generale Glynn in Israele da parte del Pentagono, i tanti altri suggerimenti e avvertimenti che la Casa Bianca e il Consiglio di Sicurezza Nazionale trapelano alla stampa, non sono episodi di ordinaria amministrazione. Segnano una delle tante anomalie di questa guerra, che ha inizio con l’attacco a sorpresa di Hamas il prestigio dell’intelligence era logoro e le forze armate israeliane.

L’alleanza tra Washington e Tel Aviv è uno costante geopolitica dal 1947 (fondazione dello Stato di Israele) e soprattutto dal 1967 (Guerra dei Sei Giorni) in poi. È normale tra alleati scambiarsi informazioni e consigli; a maggior ragione se uno dei due è sotto assedio permanente e l’altro esercita storicamente un’influenza strategica in Medio Oriente. Né l’assistenza dovrebbe essere intesa come unidirezionale: quando era l’America subire la tragica sconfitta di11 settembre 2001, L’intelligence americana era desiderosa di informazioni e aiuto da parte del Mossad israeliano.

In tempi normali, invece, l’aiuto reciproco e le consultazioni avvengono in segreto, con discrezione. Oggi, invece, assistiamo a unaL’amministrazione Biden mostra il suo ruolo sostitutivo nei media di tutto il mondocon quasi indiscrezioni umiliante per l’alleato. Manda un generale il cui compito esplicito è quello di “spiegare” ai suoi colleghi israeliani tutte le incognite di una guerra urbana a Gaza, distillando le lezioni apprese dagli americani in Iraq. Come se l’esercito israeliano non li avesse studiati…

I media americani abbondano fughe di notizie, ispirate dalla Casa Bianca o dal Pentagono, sul pericolo che la risposta militare di Israele sia “emotiva, vendicativa, priva di una strategia a lungo termine”. Diversi esperti statunitensi che hanno legami con l’attuale amministrazione si chiedono ad alta voce se il governo e le forze armate di Tel Aviv abbiano un piano che contempli il secondo, terzo, quarto capitolo di questa storia dopo l’offensiva iniziale contro Hamas. Si interrogano se si calcolano tutte le implicazioni strategiche di un’eventuale espansione del fronte agli Hezbollah in Libano o all’Iran. Temono che Israele non stia incorporando nella sua strategia la necessità di ricucire un fronte di paesi arabi quasi amici, che vanno dall’Arabia Saudita agli Emirati al Qatar, compresi ovviamente Egitto e Giordania. Tutto questo non avviene in un dibattito a porte chiuse tra Joe Biden, Anthony Blinken e il gabinetto di guerra presieduto da Benjamin Netanyahu, ma in una sorta di processo pubblico a priori su cosa farà Israele.

Non è una situazione normale. L’anomalia che segna il rapporto tra Washington e Tel Aviv in questi giorni non si attenua neppure invocando il confronto con prime fasi della guerra in Ucraina. Sì, le somiglianze sono evidenti, molto forte. Anche nel febbraio 2022 l’Ucraina è stata inizialmente colta di sorpresa dall’aggressione di Putin, e in quel caso così è stato colpevole di non aver prestato ascolto agli avvertimenti dell’intelligence americana e britannica, che avevano previsto quell’invasione. Da quel momento in poi, le prime fasi dell’attacco russo furono segnate dalla profonda sfiducia dell’America nei confronti di Kiev, e in particolare di Zelenskyj. Anche Zelenskyj, come Netanyahu, ha ereditato un pessimo rapporto con Biden. Il Pentagono nutriva enormi dubbi sulla resilienza dell’esercito ucraino. Quella fase iniziale è stata superata grazie al comportamento di Zelenskyj e dei suoi soldati. Ma il parallelo si ferma qui: la reputazione dell’esercito e dell’intelligence israeliana non può certo essere paragonata a quella degli ucraini; inoltre, le relazioni tra Stati Uniti e Israele sono molto più antiche e profonde.

Oggi Israele ne sta servendo uno perdita di credibilità legata in primis a Netanyahu. Sono troppi gli errori che gli vengono accusati, e lui non ha mai fatto nulla per rispondere alle critiche che venivano dai democratici americani: anzi, dai tempi di Barack Obama si è comportato come se negli Stati Uniti esistesse solo il Partito Repubblicano. Il suo asse preferenziale con Donald Trump è uno macchia che si aggiunge a molti altri.

Per quanto riguarda la Cia et al Pentagonosi chiedono se il efficienza proverbiale dei servizi segreti e dei militari Gli israeliani non sono stati colpiti in modo molto serio dalla lacerazione della società civile provocato da Netanyahu.

Finalmente c’è la Casa Bianca preoccupato anche per la sorte degli ostaggi americani e gli piacerebbe mantenere attive alcune linee di comunicazione con Hamas (soprattutto attraverso il Qatar) per la loro liberazione. Più che altro, nella “disvalutazione” che traspare da molti Fughe di notizie guidate da Washingtontraspare l’acuta consapevolezza della posta in gioco globale.

La squadra di Biden prende sul serio il rischio che a asse antioccidentale composto da Cina, Russia, Iran e Corea del Nord, potrebbero avere più conflitti in serbo. La Casa Bianca ritiene che il Disgelo tra Israele e Arabia Saudita – e con esso l’immenso potenziale di pacificazione del Medio Oriente – può ancora essere salvato, se la controffensiva a Gaza viene mantenuta entro limiti accettabili per le leadership arabe moderate.

Come dimostra l’inedita vicenda delle fake news di Hamas sull’ospedale palestinese bombardato (contro il quale anche in Occidente non c’erano anticorpi), le piazze arabe sono pronto ad accendersi a comando, condizionando quei leader che vorrebbero pensare e agire a mente fredda. L’amministrazione Biden teme la solitudine. Osservate come la causa palestinese sta avvicinando ancora di più il Sud del mondo alla sfera di influenza di Cina, Russia e Iran. Osserva che nel caso dell’Ucraina è riuscito a organizzare una risposta abbastanza coesa e coerente da parte degli europei, mentre in Medio Oriente l’Europa è irrilevante. Osservate le crescenti provocazioni cinesi in Asia (più recentemente contro le Filippine) come segnale inquietante del terzo fronte che potrebbe aprirsi.

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