Un passo verso l’ingresso nella “Terza Repubblica”. Ma senza fare salti nel vuoto: l’approvazione del premier “non c’entra niente con l’andamento del governo”. Giorgia Meloni arriva di corsa e sotto una pioggia battente nella Sala Polifunzionale di Palazzo Chigi. Non è un giorno qualunque per il presidente del Consiglio e timoniere della destra italiana.
L’ANNUNCIO
È il giorno del premier, “la madre di tutte le riforme”. Così Meloni chiama il testo approvato ieri dal governo che in cinque articoli promette di riscrivere una parte importante della Costituzione, dall’elezione diretta del presidente del Consiglio alla nomina dei ministri fino all’abolizione dei senatori a vita. «Oggi diciamo basta ai giochi di palazzo, restituiamo ai cittadini il legittimo diritto di decidere da chi farsi governare e diamo maggiore stabilità e credibilità alle nostre istituzioni». Seduti ai lati del leader annuiscono i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, al loro fianco i ministri Casellati e Locatelli e poi Maurizio Leo, il sottosegretario Alfredo Mantovano. Un bel pezzo del Consiglio dei ministri che pochi minuti prima ha approvato all’unanimità il testo della legge-faro del centrodestra, ormai pronto per un lungo e tortuoso iter tra Camera e Senato.
“Era il nostro impegno, lo porteremo a termine”, dice il presidente davanti ai giornalisti. E non nasconde il sollievo per il primo varo della riforma che punta ad archiviare pagine repubblicane da sempre invise alla destra oggi alla guida del Paese: le “maggioranze arcobaleno”, i “governi tecnici”, i ” sconvolgimenti” del palazzo. Ora basta: «Consegniamo all’Italia quello che andava fatto», dice la Meloni. È una promessa mantenuta davanti agli elettori, insiste il primo ministro, ma non sarà una scommessa.
Cioè, chiarisce alle pressioni della stampa, il destino del primo ministro “non ha nulla a che fare” con il futuro del suo governo. «C’è chi si è dimesso dopo aver detto ‘se perdo il referendum mi dimetto’. Io ho detto una cosa molto diversa: ho fatto quello che dovevamo fare, che è scritto nel mio programma, faccio la riforma, la consegno agli italiani e sono gli italiani a decidere”.
Quindi la struttura della riforma non cambierà. È prevista l’elezione diretta del primo ministro: si voterà in un unico scrutinio per il leader del governo e per il nuovo Parlamento. C’è un bonus di maggioranza, senza precedenti, previsto dalla Costituzione: il 55% dei seggi a chi vince le elezioni. C’è la “regola anti-inversione”: se il presidente del Consiglio declina, il presidente della Repubblica può affidargli nuovamente l’incarico oppure può chiamare a Palazzo Chigi un parlamentare della stessa maggioranza che porta avanti lo stesso programma elettorale, altrimenti si tornare a votare. E ancora l’abolizione dei senatori a vita: resteranno in carica solo quelli attuali e i presidenti emeriti della Repubblica.
IO NODI
Questi sono i capisaldi. Lo si vede ancora durante la navetta delle riforme in Parlamento, spiega Meloni, rispondendo alle opposizioni che parlano di “un pasticcio pasticciato”. Il primo ministro non nasconde che avrebbe preferito un premier ancora “più forte”: “Ero favorevole alla soluzione del ‘simul simul’, tornando subito alle urne in caso di mozione di sfiducia”. Rimangono tuttavia diverse questioni da risolvere. A partire dalla nuova legge elettorale che dovrà indicare una soglia minima di voti per far scattare il premio di maggioranza e potrebbe prevedere un doppio turno con ballottaggio, “la riforma non lo esclude”, dice Meloni. Tra gli altri punti nel mirino dell’opposizione c’è l’assenza di limiti al mandato del primo ministro eletto. Possibili aggiustamenti, aperti dalla maggioranza. A patto di non falsare la “riforma delle riforme”.
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