«Ora bisogna capire il ruolo dell’Iran e cosa farà Hezbollah» – Corriere.it

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK — Negli ultimi anni Benjamin Netanyahu ha spinto per la normalizzazione con i paesi arabi con funzione anti-iraniana, marginalizzando sempre più la questione palestinese nella politica del Medio Oriente, dove La Repubblica islamica è vista da molti come la principale minaccia.

Il mese scorso, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano ha messo a confronto due mappe: quella dell’isolamento di Israele nel 1948 e quella dei sei Paesi che hanno normalizzato i rapporti con lo Stato ebraico, compresi i quattro Accordi di Abramo del 2020 ( Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, Sudan). «Ma credo che siamo alle soglie di una svolta ancora più storica: la pace tra Israele e Arabia Saudita – ha aggiunto – creerà un nuovo Medio Oriente”. È in questo contesto che scoppia la nuova guerra tra Israele e Hamas. Ne abbiamo parlato con Richard Haass, ambasciatore e presidente emerito che ha guidato per vent’anni (fino a pochi mesi fa) il più influente think tank americano sulle relazioni internazionali, il Council on Foreign Relations, già consigliere di Bush senior e poi del Segretario di Stato Lo afferma Colin Powell durante la prima Guerra del Golfo e prima della guerra in Iraq.

È possibile che dietro l’attacco di Hamas ci sia un ruolo dell’Iran e che sia legato anche al tentativo di ostacolare la normalizzazione con i sauditi?
“Una delle prime cose a cui ovviamente tutti guarderanno è il ruolo dell’Iran e si vedrà se anche Hezbollah farà qualcosa di simile a quello che ha fatto Hamas. Quindi tutti hanno gli occhi puntati sul fronte del Nord e non solo su Gaza”.

Perché questo attacco adesso?
“Non esiste una miccia precisa, non è la risposta a qualcosa di specifico. Potrebbe darsi che Hamas voglia scuotere e destabilizzare lo status quo, potrebbe avere a che fare con rivalità interne al gruppo di Hamas, potrebbe essere perché l’Iran ha spinto affinché ciò accadesse, potrebbe essere per interrompere la potenziale normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Potrebbe essere successo per uno di questi motivi, per tutti questi motivi o per nessuno di essi. Insomma non lo sappiamo, non possiamo fare altro che speculare”.

Quali saranno le conseguenze?
“È una bella domanda.” Nel breve termine c’è la risposta militare israeliana e ad un certo punto mi aspetto che si fermi, per decisione di Israele e perché le potenze mondiali spingeranno Israele a fermarsi. Ma la realtà tra Israele e Hamas, tra Israele e Gaza non cambierà. Una potenziale conseguenza è un rallentamento del processo di normalizzazione con l’Arabia Saudita. Un’altra questione interessante è quale peso avrà nel dibattito sulla democrazia in Israele: per il momento sarà chiaramente relegato ai margini. Perché la maggior parte degli israeliani dirà: dobbiamo essere uniti, questo non è il momento per Israele di dividersi”.

Questo conflitto rafforzerà Netanyahu?
“Solo temporaneamente. Non penso che cambi le questioni fondamentali. D’altronde, se volesse, potrebbe dare a Netanyahu una scusa per rallentare le sue cosiddette “riforme”: potrebbe dire che ora non è il momento di portare avanti qualcosa di così controverso…».

Gli Stati Uniti sono preoccupati per il crescente peso della Cina in Medio Oriente Oriente. Ma oggi c’è qualcuno che esercita una reale influenza nella regione?
“Avere un ruolo in Medio Oriente non significa controllarlo. La Cina e la Russia svolgono un ruolo, così come l’Europa e ovviamente gli Stati Uniti. Ma poi ci sono attori interni, statali e non statali, come Hamas… Benvenuti in Medio Oriente.”

La pace tra Israele ed Egitto, dopo la guerra a sorpresa dello Yom Kippur di cui si ricorda il cinquantesimo anniversario, ha rappresentato una svolta storica. Ma vedeva i palestinesi come dei perdenti. Ne ha parlato giovedì in una conferenza al Council on Foreign Relations.
“I palestinesi, come in un gioco di sedie musicali, sono rimasti senza sedie. E venendo ad oggi tra le priorità dei sauditi nei negoziati con gli Stati Uniti bisogna andare in fondo alla lista prima di trovare la parola palestinesi. Penso che alcuni sauditi non abbiano dimenticato che quando Saddam Hussein invase il Kuwait e minacciò l’Arabia Saudita, i palestinesi erano dalla parte di Saddam. E i sauditi sono più preoccupati per l’Iran che per il sostegno di Hamas. Il grande impulso al coinvolgimento palestinese viene dal presidente degli Stati Uniti, in parte perché fa parte dell’idea strategica americana e in parte perché, se i sauditi vogliono un trattato con gli Stati Uniti, è necessario il voto dei due terzi del Senato e non ci sarà sufficiente sostegno da parte del Partito Democratico senza una dimensione significativa che protegga gli interessi palestinesi”.

Lei ha affermato che in diplomazia non esiste compito più arduo della “costruzione della nazione”, ovvero l’assistenza alla costruzione di uno Stato stabile e democratico. Per i palestinesi, due ulteriori problemi rendono il tutto straordinariamente difficile.
“Le divisioni nella costellazione della leadership palestinese e del governo israeliano, in cui ampi elementi non vogliono incoraggiare un simile processo.”

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