Il terzo fix, dal quale stiamo uscendoaveva ragioni completamente diverse ed era più interessante degli altri perché speculato su un futuro più probabile. Lo scenario stagflazionistico delineato dai pessimisti nelle due correzioni precedenti era infatti modellato sul modello degli anni ’70. Questo sfortunato modello, se così si può chiamare, era caratterizzato dal continuo fermati e vai dell’economia e della politica monetaria, con cicli bruschi di rialzi dei tassi seguiti da cicli altrettanto bruschi (e prematuri) di ribasso. La politica fiscale, dal canto suo, è stata invece, vista con gli occhi di oggi, piuttosto moderata. Carter ereditò da Ford un deficit federale del 4% e lo ridusse al 2,5% entro la fine del decennio.
Oggi abbiamo Invece una politica monetaria che ha ripreso il controllo della situazione senza bisogno di una recessione, ma una politica fiscale che va avanti a pieno ritmo da tre anni e che non accenna a voler cambiare nel resto del decennio. Ai democratici americani piace spendere e ai repubblicani piace tagliare le tasse, con il risultato che il deficit federale resta ora su livelli costantemente elevati. Questo deficit, se non finanziato con le tasse (che anche per i democratici non possono superare un certo limite, pena la perdita di consensi) o con moneta (in un momento in cui la Federal Reserve non è più accomodante) deve essere finanziato con il debito.
Il resto del mondo non sottoscrive più questo debito così volentieri come prima. La Cina, per esempionon vende i tremila miliardi di titoli del Tesoro americano accumulati nel corso dei decenni, ma non si iscrive più a quelli nuovi. Molti altri paesi fanno lo stesso. Non si tratta della dedollarizzazione vera e propria di cui si è parlato un po’ frettolosamente negli ultimi mesi, ma è comunque la fine del ciclo ascendente di dollarizzazione degli ultimi decenni.
Il debito federale (a cui va aggiunto quello, anch’esso in crescita, dei 50 Stati e enti locali) deve quindi essere finanziato sul mercato. Il mercato lo compra ma chiede un tasso reale molto più alto rispetto al tasso negativo dell’ultimo decennio e gli anni folli del Covid. Inoltre, con la fine dell’inflazione a portata di mano, anche ilerosione dello stock di debito in rapporto al PIL. Il rapporto debito/PIL ricomincia ad aumentare e la qualità del debito peggiora.
Il calo dell’inflazione ha portato molti ad acquistare tassi fissi a lungo termine, ma coloro che lo hanno fatto non hanno tenuto conto dell’aumento dei tassi realiciò è diventato particolarmente evidente quando il Tesoro americano, una volta terminata la battaglia sul tetto del debito che aveva bloccato le emissioni, si è presentato sul mercato all’inizio di agosto con ingenti quantità di titoli da collocare.
Il surriscaldamento dell’economia e l’aumento dei tassi reali significavano, agli occhi dei mercati, la possibilità concreta di ulteriori rialzi dei tassi. Con tassi elevati a perdita d’occhio, le azioni si sono trovate sottocompetitive rispetto alle obbligazioni. A ciò si aggiungevano poi l’idea di una Cina in difficoltà non più solo ciclica ma anche strutturale e quella di un’Europa in stagflazione.
La correzione non è stata violenta, ma è stata comunque sofferta perché sembrava ben motivata. Si è conclusa quando i dati sull’inflazione e sul mercato del lavoro hanno mostrato i buoni risultati del lavoro della Fed lo scorso anno. La disinflazione è stata impeccabile e finora non ha prodotto danni collaterali significativi. Le persone in cerca di lavoro oggi hanno meno scelte rispetto a prima (anche se ci sono ancora più persone in cerca di lavoro che disoccupati) e questo funge da freno nella negoziazione della retribuzione al momento dell’assunzione. Chi invece ha un lavoro lo mantiene, ma lo tiene più stretto di prima e non va a cercarsene un altro più pagato.
Obbligazioni e Borse si avviano verso una fine d’anno più serena dal punto di vista ciclico, ma la scoperta ad agosto del problema strutturale della politica fiscale espansiva accompagnata dal rialzo dei tassi reali è destinata a fare da freno. Col senno di poi, l’aumento dei tassi reali per compensare le politiche fiscali espansive è una ricetta classica. È stata applicata l’ultima volta dallo stesso Powell nel 2018, ma da allora e fino alla metà del 2022, i mercati si sono abituati sia a politiche fiscali che monetarie espansive. Ora devono riscoprire che la buona notizia dello stimolo fiscale deve essere compensata da quella meno buona dell’aumento dei tassi reali.
Per quanto riguarda la Cina, il mercato alterna attese ansiose di misure di ripresa a fasi di scoraggiamento a causa dell’esiguo numero di tali misure. Dovremo capirlo. La Cina è in grado di gestire le sue difficoltà strutturali in modo ordinato, ma il prezzo è quello di una bassa crescita nel tempo.
Nel medio termine, lo spostamento della crescita della Cina dal settore immobiliare alla tecnologia e ai consumi sarà positivo per la Cina e per il mondo, ma dobbiamo affrontare un processo impegnativo che durerà il resto di questo decennio.
Per quanto riguarda l’Europa, la recessione industriale che la colpisce è l’effetto della perdita definitiva delle industrie ad alta intensità energetica, a cui si aggiunge una politica energetica non ottimale. Tuttavia, la perdita dei settori ad alta intensità energetica è una tantum ed è ragionevole sperare che il processo di adattamento dell’industria tedesca porti ad una timida ripresa nei prossimi mesi.
In sintesi, l’ondata di paura di Ferragosto è passata e il mercato azionario, ripulito dagli eccessi, vuole tornare sui massimi dell’anno. Probabilmente ci riuscirà, ma la lezione di agosto resterà impressa e darà i suoi frutti una ripresa decisiva del mercato rialzista è difficile. Il 2023 si chiuderà probabilmente poco al di sopra dei livelli attualimolto meglio di quanto avesse immaginato all’inizio dell’anno ma senza gli eccessi di entusiasmo che avevamo cominciato a vedere a luglio.
A cura di Alessandro Fugnolistratega di Kairos (La sezione Rosso e Nero)