Nel marzo del 1934, quando si imbarcò per raggiungere gli Stati Uniti, Margherita Grassini Sarfatti era una stella del firmamento fascista – un tempo luminosissima – prossima al tramonto. Fascista della primissima ora. Sansepolcrista e marcia su Roma. Madre del più giovane eroe della Grande Guerra. Legato sentimentalmente a Mussolini, suo consigliere e biografo ufficiale. Signora indiscussa delle arti. Propagandista internazionale della nuova Italia littoria. Giornalista, scrittore e direttore del giornale più mussoliniano, Gerarchia.
Il conto alla rovescia è già iniziato. Il Duce è stato cacciato dal Popolo italiano. Alla mostra allestita a Roma per il decennale della rivoluzione fascista non fu chiamata a collaborare, né invitata all’inaugurazione. È stata rimossa dalla guida della Gerarchia. Molti fingono di non riconoscerla, non la invitano, la criticano apertamente. Giunta in America, tiene un’affollata conferenza alla Casa Italiana di New York. Tutti vogliono incontrarla. Gli abiti della sartoria parigina di Elsa Schiaparelli, indossati con grazia in ogni sua apparizione pubblica, sono seducenti quanto il suo inglese fluente. Il presidente Roosevelt e sua moglie Eleanor la ricevono alla Casa Bianca. Quando tornò in Italia si accorse del proprio fallimento. Il potere nelle arti è sfumato. Mussolini ha perso ogni interesse per la “signora Sarfatti”: non la vuole più come sua amante, collaboratrice e consigliera.
Nel maggio 1937 fu pubblicato da Mondadori il resoconto del viaggio: America, alla ricerca della felicità. Il saggio – ripubblicato da Liberilibri (342 pagine, 24 euro, con prefazione di Pietrangelo Buttafuoco) – è stato scritto in inglese, nella speranza, rivelatasi vana, di una pubblicazione americana (il suo Dux, pubblicato in inglese nel 1925 – apparve in Italia l’anno successivo – aveva ottenuto successo e ammirazione). L’autore si tiene lontano dai soliti pregiudizi e luoghi comuni dell’antiamericanismo fascista ed europeo. Osserva come l’America sia l’estensione dell’Europa, il centro della civiltà bianca in Occidente. New York le sembra un riflesso più ampio di Londra. È una città traboccante di passato, poiché vi convivono etnie (e storie) diverse: europea, asiatica, latinoamericana. New York si identifica con i grattacieli, che hanno lo stesso significato che un tempo avevano le cattedrali: «tutti gli edifici verticali sono sempre stati affermazioni di impero. E quello che mi piace del grattacielo è proprio il carattere antieconomico, disinteressato, idealistico e metafisico della sua enormità.” La rivalità tra le grandi città per chi possiede i grattacieli più belli ricorda la competizione di un tempo tra Orvieto e Siena su chi avesse le cattedrali più belle. Nonostante gli evidenti squilibri e la povertà diffusa, gli americani hanno costruito un mondo moderno di civiltà bianca, certamente pieno di contraddizioni, grandezza e distorsioni. L’impressione è di vedere rinascere “una nuova Roma inquieta”. Il patriottismo è “spontaneo come il nostro, anche se con più sfumature e allo stesso tempo più enfatico che in alcune antiche nazioni di questa sponda dello stagno.”
Nel 1835 l’America ebbe un visitatore d’eccezione: Alexis de Tocqueville. Lo ha descritto nei termini giusti, dandone un’immagine profetica. Un secolo dopo Margherita tenta di indicare la stessa strada. Molte cose sono cambiate dal viaggio di Tocqueville, ma l’America resta il paese dove si può cercare la felicità. L’interpretazione che recentemente è stata data, in ambito storiografico, dell’America, della ricerca della felicità, è duplice. Deve essere inteso come un punto di vista ortodosso, strettamente orientato al rispetto dell’ideologia fascista (antiamericana). Oppure, dal punto di vista opposto, deve essere intesa come l’ammissione del fallimento della missione del fascismo. Non è né l’uno né l’altro. Margherita Sarfatti celebra la modernità americana. Ma voi non avete intenzione di stilare l’atto di morte della modernità fascista. Anche se il paragone è suggestivo, l’equiparazione della profezia ottocentesca di Tocqueville sul declino della civiltà europea con la profezia novecentesca di Sarfatti sul declino della civiltà fascista può avere un fondamento: ma estetico, metafisico, religioso. Certamente non politico.
Nel ’37 Margherita non avrebbe potuto avvertire che l’Europa sarebbe diventata il teatro di una guerra mondiale, né che il mondo, dopo la guerra, si sarebbe americanizzato.
Ritornata in Italia, si recò da Mussolini per dargli il suo giudizio sugli incontri avuti. Gli mostra la sua opinione favorevole dell’America. Mussolini, irritato, taglia corto, ponendo fine alla discussione. La liberazione italiana dell’America, la ricerca della felicità fu accolta male. Nel ’37 Margherita non smette di credere nel fascismo. Al contrario: è il fascismo che ha smesso di credere in lei. Forse ha smesso di credere in Mussolini. E non perché stesse portando il fascismo sulla strada sbagliata. Ma perché non è più lei a indicare – impiegata, in parte o in totale autonomia – la strada da seguire. Un anno dopo, la “regina della cultura” è costretta a fare una scelta drammatica. Deve lasciare l’Italia.
Nel luglio 1938 furono approvate le “leggi razziali”. Margherita Grassini Sarfatti, nata ebrea nel 1880 a Venezia, poi convertita al cattolicesimo, femminista, socialista, nazionalista, interventista e fascista (sempre per convinzione, mai per convenienza), è un corpo estraneo. Il suo mondo è crollato. Emigra in Sud America perché il Nord America si rifiuta di accoglierla. Il fascismo divorò spietatamente uno dei suoi figli migliori.