Un piano in sei punti: ecco il futuro di Gaza secondo gli Stati Uniti

Mentre continua l’avanzata delle forze Tsahal nel cuore di Gaza City, qualcosa sembra muoversi anche sul fronte diplomatico. In effetti, il piano per il giorno dopo nella Striscia, frutto degli intensi sforzi americani e dei suoi più stretti alleati. UN carta stradale il che, nonostante le forti riserve espresse nelle ultime ore dal Primo Ministro Benjamin Netanyahupotrebbe rappresentare un punto di partenza per ogni tentativo di stabilizzare un conflitto che rischia di estendersi dall’enclave palestinese all’intero Medio Oriente.

Conferma dell’esclusione dei terroristi da parte Hamas da ogni negoziato, porre il veto al progetto israeliano di occupazione dei territori amministrati dal movimento islamista e restituire la soluzione dei due Stati come stella polare da seguire per uscire dalla crisi. È questa, in sostanza, la strategia per il post-Gaza al centro delle discussioni del vertice dei ministri degli Esteri del G7 tenutosi questa settimana a Tokyo e al quale, oltre al capo della Farnesina, ha partecipato Antonio Tajaniil Segretario di Stato americano Antonio Blinkenfresco da un intenso diplomazia della navetta in Israele, Giordania, Cisgiordania, Iraq e Turchia.

I pilastri del piano

  1. Condanna senza se e senza ma della strage compiuta da Hamas il 7 ottobre che, secondo l’ultimo bilancio aggiornato, ha causato circa 1.200 vittime, in maggioranza civili. Ne consegue che è impossibile affidare qualsiasi tipo di ruolo al gruppo già inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e degli altri paesi della coalizione occidentale.
  2. Giusto perL’autodifesa di Israele in conformità con le disposizioni della Carta Nazioni Unite.

Sulla base di queste due premesse, Washington riconosce che il piano diplomatico potrà avere buone probabilità di successo solo se verrà fatto ogni sforzo possibile per bloccare l’espansione del conflitto al confine settentrionale contro Hezbollah, il movimento sciita filo-iraniano, e se si impedirà a Teheran di scendere direttamente in campo per regolare i conti con israeliani e americani, suoi nemici storici. Altrettanto fondamentale appare ottenere la moderazione militare da parte delle forze Forze di difesa israeliane (IDF) nell’operazione di terra e, come ribadito a Tokyo da Blinken, il mantenimento dell’impegno americano in Medio Oriente anche con l’obiettivo di formare un fronte compatto con i Paesi arabi moderati.

I sei punti del piano diplomatico americano

Solo dopo aver esaurito la prima fase contenuta nelle premesse si potrà passare a quella successiva, cuore dell’unico piano attualmente per il post-Gaza:

  1. Tregua immediata per consentire a cibo e medicine di entrare nella Striscia.
  2. Ritiro dei militari israeliani dall’exclave subito dopo la fine della guerra contro Hamas e abbandono da parte di Tel Aviv del progetto di amministrazione civile nei territori restituiti ai palestinesi nel 2005. Uno scenario escluso da Netanyahu secondo il quale“Israele non rinuncerà in nessun caso al controllo della Striscia”.
  3. Periodo di transizione gestito da un organismo sovranazionale. Molti guardano alle Nazioni Unite ma questo è uno dei punti più incerti perché, in caso di coinvolgimento delleLuirichiederebbe l’approvazione del Consiglio di Sicurezza e il via libera, per nulla scontato, di Cina e Russia.
  4. Di nuovo in pistaAutorità Nazionale Palestinese (PNA) che amministra la Cisgiordania. Una prospettiva accolta favorevolmente dagli americani ma sulla quale, anche in questo caso, il primo ministro dello Stato ebraico ha espresso la sua piena contrarietà: “Non permetteremo a chi non condanna il massacro da più di un mese di controllare Gaza il giorno dopo la fine del conflitto. Nella Striscia non ci sarà alcuna autorità civile che educhi sul terrorismo e paghi stipendi ai terroristi”.
  5. Riunificazione dell’amministrazione di Gaza e della Cisgiordania sotto il controllo dell’Autorità Palestinese.
  6. Rianimazione della formula “due popoli, due Stati” prevista dall’art Accordi di Oslo che, 30 anni dopo, rappresentano ancora l’unica vera via per risolvere una questione che si trascina all’infinito dalla nascita dello Stato ebraico nel 1948.

La forte opposizione di Netanyahu ad alcuni punti del piano diplomatico patrocinato dagli americani è il segnale di una pressione crescente da parte degli alleati sul gabinetto di guerra, accresciuta anche da quanto rivelato da un funzionario dell’amministrazione di Joe Biden all’udienza New York Times: “L’esercito israeliano ha poco tempo per completare le sue operazioni nella Striscia prima che la rabbia dei paesi arabi e la frustrazione degli Stati Uniti e di altre nazioni per le vittime civili mettano un freno all’obiettivo di sradicare la presenza israeliana lì. Hamas”.

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